Il mio viso

riflesso nello specchio
è il passato

Informazioni personali

mercoledì 29 febbraio 2012

I lego...questi sconosciuti

http://it.wikipedia.org/wiki/LEGO

credo che tutti conoscano questi piccoli mattoncini.
I miei figli ci hanno giocato da quando erano piccoli e io, non mi vergogno a dirlo, ci ho giocato con loro.
quando era piccola mia figlia facevamo villaggi di casette con i personaggi che si incontravano, che costruivano mobili e suppellettili, poi lei ha continuato con altre ambientazioni : ospedali , maneggi...
Con mio figlio abbiamo incominciato con alte torri (che costruivo io e che lui si divertiva a far crollare) poi siamo passati a strani personaggi, a navi spaziali, aerei, treni ultrasonici.....
Ora sono là, che riposano in un cesto e che nessuno ha intenzione di dare via o buttare, forse guardarli serve un po' a tutti a ricordare l'infanzia.


queste le ultime novità, su www.focus.it

lunedì 27 febbraio 2012

Georges Brassens - Les passantes

Je veux dédier ce poème
A toutes les femmes qu'on aime
Pendant quelques instants secrets
A celles qu'on connaît à peine
Qu'un destin différent entraîne
Et qu'on ne retrouve jamais

A celle qu'on voit apparaître
Une seconde à sa fenêtre
Et qui, preste, s'évanouit
Mais dont la svelte silhouette
Est si gracieuse et fluette
Qu'on en demeure épanoui

A la compagne de voyage
Dont les yeux, charmant paysage
Font paraître court le chemin
Qu'on est seul, peut-être, à comprendre
Et qu'on laisse pourtant descendre
Sans avoir effleuré sa main

A la fine et souple valseuse
Qui vous sembla triste et nerveuse
Par une nuit de carnaval
Qui voulut rester inconnue
Et qui n'est jamais revenue
Tournoyer dans un autre bal
*

A celles qui sont déjà prises
Et qui, vivant des heures grises
Près d'un être trop différent
Vous ont, inutile folie,
Laissé voir la mélancolie
D'un avenir désespérant

A ces timides amoureuses
Qui restèrent silencieuses
Et portent encor votre deuil
A celles qui s'en sont allées
Loin de vous, tristes esseulées
Victimes d'un stupide orgueil
*

Chères images aperçues
Espérances d'un jour déçues
Vous serez dans l'oubli demain
Pour peu que le bonheur survienne
Il est rare qu'on se souvienne
Des épisodes du chemin

Mais si l'on a manqué sa vie
On songe avec un peu d'envie
A tous ces bonheurs entrevus
Aux baisers qu'on n'osa pas prendre
Aux coeurs qui doivent vous attendre
Aux yeux qu'on n'a jamais revus

Alors, aux soirs de lassitude
Tout en peuplant sa solitude
Des fantômes du souvenir
On pleure les lèvres absentes
De toutes ces belles passantes
Que l'on n'a pas su retenir
 
  Fabrizio De Andrè
   
              
Le passanti
 
 
Io dedico questa canzone
ad ogni donna pensata come amore
in un attimo di libertà
a quella conosciuta appena
non c'era tempo e valeva la pena
di perderci un secolo in più.

A quella quasi da immaginare
tanto di fretta l'hai vista passare
dal balcone a un segreto più in là
e ti piace ricordarne il sorriso
che non ti ha fatto e che tu le hai deciso
in un vuoto di felicità.

Alla compagna di viaggio
i suoi occhi il più bel paesaggio
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l'unico a capirla
e la fai scendere senza seguirla
senza averle sfiorato la mano.

A quelle che sono già prese
e che vivendo delle ore deluse
con un uomo ormai troppo cambiato
ti hanno lasciato, inutile pazzia,
vedere il fondo della malinconia
di un avvenire disperato.

Immagini care per qualche istante
sarete presto una folla distante
scavalcate da un ricordo più vicino
per poco che la felicità ritorni
è molto raro che ci si ricordi
degli episodi del cammino.

Ma se la vita smette di aiutarti
è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti.

Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine,
una maniera di viversi insieme,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non siamo riusciti a trattenere.
 
 

domenica 26 febbraio 2012

per rimanere nei riti propiziatori....



C’era il “cantar le uova”,  un’usanza,  che ancora pochi anni addietro si poteva ammirare  sulle nostre colline. In casa una volta si è sempre cercato di consumarne poche. Meglio portarle al mercato e tramutarle in zoccoli, pane, vestiario per l’inverno. 
   Solo alla domenica si faceva eccezione e si usano le uova per le tagliatelle, dalle nostre parti, per i famosi e gustosissimi tajarin. Dopo Pasqua, quando il sacerdote veniva a benedire le case, donare  mezza dozzina di uova era il massimo del rispetto.   Nelle ultime domeniche di quaresima i giovani del paese giravano di casa in casa, accompagnati da qualche strumento musicale. Accanto a quelli classici e tipici della nostra zona, come il clarinetto e la fisarmonica, c’erano strumenti musicali improvvisati, come zufoli di legno o di canne, tamburi alla buona. Il canto era invece formato da strofe d’occasione, a volte improvvisate sul momento, ma sempre con un unico scopo: rivolgersi al buon cuore del vicino perché regalasse delle uova (o anche denaro).   A volte, il suonatore di mezzo portava un ramo, un pino, anticamente anche una croce di legno. Il canto era abbastanza chiaro dello scopo. E si incominciava subito con un:
O dene, dene d’j oeuv
ma d’la galin-a bianca,
i vostri ausin an diso
che chila l’é mai stanca.

Dateci, dateci un uovo
Ma della gallina bianca
I vostri vicini dicono
Che lei non è mai stanca.

   In certe zone, invece, prima di fare la richiesta si passava a strofe improvvisate di saluto e di complimento per la famiglia interpellata, dobbiamo notare che i cantori erano sempre gente del posto per cui ben conoscevano le persone e le famiglie alle quali rivolgevano la questua. Ad ogni caso, quindi, ecco la strofa apposita, per cui se c'era una zitella:
An custa casa quì
a j'é ancora na tota
restà da maridé
ma se la vardi ben
a smia na matota.

In questa casa qui
C’è ancora una signorina
Restata da sposare
Ma se la guardi bene
Sembra una tonta
   Ma il saluto per eccellenza veniva portato alla padrona di casa
Signora la madama
se chila an na da nent
preguma la Madona
ch'ai fassa casché i dent.

Signora padrona di casa
Se lei non ci da niente
Preghiamo la Madonna
Che le faccia cadere i denti

sergio berardo descrive la ghironda



 Ho scoperto questo antico strumento musicale, la ghironda, nel contesto dei riti propiziatori delle "masche" (le streghe piemontesi, di cui già ho parlato) a cui ho assistito nel Borgo Medioevale


fontana del melograno

chiesa

venerdì 24 febbraio 2012

Quasi amici trailer.mpg



era da diverso tempo che non assistevo ad un film che non fosse una delusione.
Questo è veramente pieno d'umanità ed anche divertente.
Affronta la diversità in modo scanzonato, ma appunto nel giusto modo in cui credo sia da affrontare.
Lo consiglio e se qualcuno lo ha visto mi farebbe piacere sapere cosa ne pensa.
Buon fine settimana a tutti.

martedì 21 febbraio 2012

domenica 19 febbraio 2012

come proseguimento delle sartine vediamo....

il lavoro al tombolo.
Per chi vuole cimentarsi ecco un inizio.....


 
La lavorazione del tombolo ha origini antichissime. Le prime manifestazioni di questa antica arte sono fatte risalire ad epoche etrusche in quanto sono stati trovati fuselli in osso in alcune tombe. Risulta però difficile trovare un preciso momento storicoche possa essere ritenuto un punto di partenza per l'arte del tombolo moderno. Si può ritenere possibile una datazione che ci porta nella Magna Grecia anche se poi documenti effettivamente datati risalgono "solo" al XV secolo. Ma anche in questo caso abbiamo varie interpretazioni. C'è chi ritiene che la diffusione della tecnica del pizzo sia partita dalle Fiandre e che nel corso del XVI secolo si sia diffusa in tutta Europa, fino a far si che il merletto assumesse un ruolo insostituibile nel campo della moda e dell'abbigliamento. Nel 1476, un documento della famiglia D'Este di Ferrara fa riferimento ad un contratto stipulato a Milano avente come oggetto "una striscia a dodici fusi" per lenzuolo.
Durante tutto il XVII secolo la tecnica del merletto subì dei cambiamenti importanti che portarono alla definizione di un determinato numero di punti e lavorazioni. Il punto Venezia, con i bordi lavorati a rilievo, dominò inizialmente il mercato. 


 
Una leggenda recita così :
Un giovane buranello partì per il lontano Oriente e la sua bella fidanzata rimase sola ad aspettarlo. Dopo lunghi mesi di navigazione la sua nave giunse ad un mare abitato dalle sirene e come racconta anche il mito di Ulisse anch'egli legò se stesso e i propri marinai per resistere al magico canto delle belle sirene a non gettarsi in acqua dove avrebbe trovato la morte. La regina delle sirene ammirata e stupita della fedeltà del giovane verso la sue bella innamorata decise di premiarlo e sollevando con la coda una nuvola di schiuma, che solidificatasi nelle mani del giovane si trasformò in un magnifico velo da sposa. Quando la fanciulla vide tanta meraviglia volle riprodurla con ago e filo e da quel momento le donne di Burano si dedicarono alla bellissima arte dei preziosi merletti.

sabato 18 febbraio 2012

Le "caterinette"

venivano chiamate così a Torino, per la loro santa protettrice Santa Caterina, le sartine, una popolazione  di giovani e meno giovani industriose e laboriose che cucivano i vestiti principalmente alle donne, perchè per gli abiti maschili vi erano i sarti.
Solo le camicie venivano cucite dalle sarte, ma la supremazia del "taglio" era anch'essa maschile.
Nascono come lavoranti in casa dove la gente porta la stoffa e scieglie sui "figurini" i modelli di vestiti che prima semplici diventano mano a mano più sofisticati, infatti esse cucivano abiti da sposa e da intrattenimento.
Pochi i ferri del mestiere, l'indispensabile macchina da cucire, prima quella a manovella poi fece l'apparizione quella a pedali.
questa apparteneva a mia mamma e ci ho cucito anch'io, è ancora funzionante.
Già dai primi del Novecento Torino era capitale della Moda e le sartine avevanoconquistato con fatica   l'abilita' professionale "rubando il mestiere" sin da quando, appena adolescenti, giungevano a bottega come "cite" o "picinine". Le "cite", che per i primi tre/quattro anni di lavoro ricevevano una paga poco piu' che simbolica, imparavano a tenere d'occhio le colleghe piu' sperimentate, al lavoro negli atelier per dieci, dodici ore al giorno, e anche di piu' durante i
picchi della stagione mondana che si registravano a primavera e a autunno. I compiti piu' semplici - cucire gli orli dei capi gia' confezionati - erano affidati al grado immediatamente superiore alle "cite", vale a dire le "sedute" o "fancell". Per vedersi affidare la lavorazione di abiti importanti - quelli da sera, in seta o velluto, per esempio - occorrevano anni di esperienza. Non bastava pero' essere svelte e abilissime ma madre natura doveva aver fornito l'interessata anche di "mani di velluto" , e non solo in senso metaforico. Infatti la "premie're", o capo sarta, prima di affidare abiti impegnativi a una novellina procedeva a un esame delle mani e delle dita che dovevano essere curatissime e lisce,
non sciupate dalle faccende domestiche, poiche' la seta esigeva un tatto delicatissimo e alla minima ruvidezza si rischiava di "tirare il filo".
 tanti sono i racconti, i film imperniati attorno a questo umile e laborioso mestiere, qui una serie di esperienze, di un periodo già avanzato.........

giovedì 16 febbraio 2012

Carnevale

Il vestito di Arlecchino
Gianni Rodari
 

Per fare un vestito ad Arlecchino
ci mise una toppa Meneghino,
ne mise un'altra Pulcinella,
una Gianduia, una Brighella.
Pantalone, vecchio pidocchio,
ci mise uno strappo sul ginocchio,
e Stenterello, largo di mano
qualche macchia di vino toscano.
Colombina che lo cucì
fece un vestito stretto così.
Arlecchino lo mise lo stesso
ma ci stava un tantino perplesso.
Disse allora Balanzone,
bolognese dottorone:
"Ti assicuro e te lo giuro
che ti andrà bene li mese venturo
se osserverai la mia ricetta:
un giorno digiuno e l'altro bolletta!". 


La Leggenda del Costume di Arlecchino
 
C'era una volta un bambino, chiamato Arlecchino, molto povero che viveva con la sua mamma in una misera casetta.
Arlecchino andava a scuola e, per carnevale, la maestra organizzò una bella festa e propose a tutti i bambini della scuola di vestirsi in maschera.
I bambini accolsero l'idea con molto entusiasmo, parlavano dei loro vestiti coloratissimi e   bellissimi.        
Soltanto Arlecchino, solo, in disparte,non partecipava all'entusiasmo generale; zitto, zitto, in un angolíno, sapeva che la sua mamma era povera e non avrebbe mai potuto comprargli un costume per quell'occasione!
Ma agli altri bimbi dispiacque vedere Arlecchino tanto triste, così ciascuno di loro decise di portare alla sua mamma un pezzetto di stoffa avanzata dai loro costumi colorati. La mamma lavorò tutta la notte, cucì fra loro tutti i pezzi diversi e ne fece un abito. Al mattino Arlecchino trovò un bellissimo abito di tanti colori diversi. Cosi, alla festa della scuola fu proprio lui la maschera più bella e più festeggiata... e tutto questo grazie all'aiuto che i suoi compagni gli avevano dato.
Così, la leggenda ci racconta, nacque il costume di Arlecchino.



Ricordi di quando eravamo bambini